Io mi chiamo Jorsh by Silvana de Mari

autore:Silvana de Mari [Mari, Silvana de]
La lingua: ita
Format: epub
pubblicato: 2012-03-10T23:00:00+00:00

La squadra era fatta da cinque: il Lungo, che aveva tanta carne sulle ossa quanta ne ricavate a spolpare un passero, il Fantasma che non era meno scheletrico del Lungo, ma essendo piccolo di statura si notava meno, Kaily il nano e poi mio padre ed io. Il Lungo aveva accompagnato sua figlia al lebbrosario ed era rimasto con lei fino alla sua morte. Ne era uscito un anno prima dell’arrivo di mio padre. Non aveva quindi ancora la M sulla fronte. Non era mai scappato per la paura tremenda della M: era stato loro concesso di non portarla in quanto queste erano le regole alla loro liberazione dal lebbrosario. Ma in caso di fuga, prima della morte ci sarebbe stato il marchio infuocato.

Ci svegliavamo prima dell'alba, tornavamo sui giacigli che condividevamo con grasse e liete cimici che le stelle e le costellazioni già dominavano il cielo. Non avevamo diritto a nulla, salvo che al disprezzo. Per restare sani dovevamo aver fatto un patto coi demoni. Da qui il nostro secondo nome: i Senzanima. E mai nome fu più azzeccato. Perché se un anima all'inizio avevamo dovuto avercela, in quell'universo di disprezzo noi ce la siamo persa.

Quando hanno avuto bisogno di qualcuno che bruciasse i luoghi dove persone innocenti vivevano in pace si sono rivolti a noi, già forniti dai demoni privi di anima.

Sono venuti a reclutarci di notte, non ho mai capito perché. Si vergognavano forse. Sono venuti di notte e con le facce coperte, perché non era una cosa che si era già fatta quella che stavano facendo.

Ci hanno offerto una via di uscita. Finalmente avevano capito la causa della lebbra e delle piogge infinite che flagellavano il mondo sempre più aspre.

Il reclutamento è avvenuto in una mattina livida, che sembrava galleggiare sulla mancanza di colore.

I reclutatori avevano giubbe dove il nero e il cremisi si alternavano accecanti Avevano nomi accecanti: il conte di Pietrafitta, il marchese di Malevento, il Cavaliere di qualche cosa e il Barone di qualche cosa d’altro. Accecarono noi, in realtà erano signorotti da niente che regnavano su feudi miserabili. La loro grandezza era unicamente fondata solamente sulla distanza che loro stessi avevano messo tra le loro altezze e i loro sudditi. Prima c’erano loro, poi c’erano i cortigiani, poi c’erano gli armigeri, poi c’erano i cuochi, poi c’erano i servi, poi c’erano i loro cani e poi venivano quelli che gli coltivavano i campi e tenevano i boschi perché non diventassero selve. Poi non c’era niente, e dopo il niente arrivavamo noi che eravamo i melmosi. Chi lo capì fu il nano, che aveva la capacità di giudicare le leghe, e anche gli uomini superiore a quella che avevamo noi.

I cavalieri avevano spade con le else di uno splendore accecante, di uno splendore accecante erano le loro corazze, con gli intarsi al collo e alle spalle.

«Più alluminio che ferro. Brilla, ma è una lega che non vale nulla», sibilò Kaily, che come tutti i suoi era anche il signore dei metalli e della materia.

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